lunedì 1 ottobre 2012

Tre giorni in "terra liberata"

Villa Santa Barbara, o semplicemente la “villa” come la chiamano da queste parti, è una costruzione nascosta tra uliveti e vigneti che si estendono a perdita d’occhio nel comune di Torchiarolo, in provincia di Brindisi. Circondata da un muro alto oltre due metri e dotata di potenti fari che la illuminano a giorno, ha tutta l’aria di essere un bunker eretto a difesa di qualcuno o di qualcosa piuttosto che una masseria di campagna.
Del resto, quando scopri chi ne era proprietario capisci che la villa è stata costruita proprio per questo. Fino a maggio del 2010, infatti, è stata la casa di Tonino Screti, considerato dagli inquirenti il cassiere della Sacra corona unita, la quarta mafia nata proprio in queste zone della Puglia.
Oggi la villa e trentacinque ettari di terreni confiscati sono gestiti dalla cooperativa “Terre di Puglia - Libera terra” che vi coltiva grano, pomodori, carciofi e uva. D’estate, poi, le stanze della villa si animano della presenza di decine di giovani che arrivano da tutta Italia per partecipare ai campi antimafia, organizzati dall’Arci e quest’anno anche da Cgil e Spi, e lavorare quelle terre rimaste per anni ostaggio della criminalità mafiosa che ha imposto soprusi e violenza, calpestato le regole, lacerato il tessuto sociale.
Ma nel campo di Torchiarolo, così come in tutti quelli organizzati in giro per l’Italia, non ci trovi solo i ragazzi. A dare man forte arrivano, infatti, anche i volontari dello Spi Cgil, con il compito di preparare i pasti per tutti i partecipanti, ma anche quello di trasmettere ai giovani compagni di avventura quel patrimonio di memoria e di esperienza del quale sono custodi. Convinti, a dispetto di chi alimenta ad arte un conflitto tra giovani e anziani, che la costruzione e la crescita di una società civile non possa prescindere da un solido patto tra generazioni, che in questo caso si esprime attraverso la condivisione di un progetto per la riaffermazione della legalità e della democrazia.
Quando con Cosimo, segretario organizzativo dello Spi di Brindisi, arrivo al “campo di Hiso” – così chiamato in onore di Hiso Telaray, giovane immigrato albanese ucciso nel 1999 perché aveva osato ribellarsi ai “caporali” – è un rovente pomeriggio di luglio. Il cielo è una massa lattiginosa che annulla le distanze. L’ininterrotto frinire delle cicale e un sole implacabile rendono stanchi anche i pensieri.
Margherita, Valerio e Chiara mi accolgono con grande affetto e mi fanno sentire tra vecchi amici. Sono giovani attivisti dell’Arci, arrivati dall’Emilia Romagna per coordinare l’attività del campo. Mi “lasciano libero” di girare per il campo, di prendere confidenza con l’ambiente. Per le presentazioni “ufficiali” rimandiamo tutto alla cena. I ragazzi, impegnati nella pulizia della villa, mi guardano incuriositi. Molti indossano la maglietta con la scritta “Legalità – Terra senza confini”.
La mattina don Luigi Ciotti ha fatto visita al campo. È ripartito da alcune ore, ma l’emozione è ancora viva, condivisa da giovani e anziani, e mi viene trasmessa dai volontari dello Spi dell’Emilia Romagna, con i quali mi soffermo in cucina mentre affettano pomodori, zucchine e meloni per la cena. Spendono parole di grande ammirazione per il fondatore di Libera: «Ascoltando don Ciotti – confessa Gilberto, dello Spi di Cesena – mi è venuta la pelle d’oca». «Ci ha raccontato la sua storia straordinaria – aggiunge Danila, anche lei dello Spi di Cesena – è una persona di grande carisma, un eroe del nostro tempo».
Ma qual è il motivo che li ha spinti a partecipare al campo? La risposta è univoca: la curiosità di conoscere questa realtà e provare a comprenderla, oltre alla voglia di fare qualcosa di concreto contro la mafia. «Sapevo dell’esistenza dei terreni confiscati – dice ancora Gilberto –, ma non sapevo come fossero utilizzati. Venire qui ha significato toccare con mano il problema. Credo che con l’impegno le cose possono cambiare». «Questa esperienza – aggiunge Mirella, dello Spi di Cesena – è importante soprattutto per noi che veniamo dal Nord. Perché se è vero come dice don Ciotti, la mafia ha radici al Sud ma i suoi frutti sono al Nord, e noi abbiamo una conoscenza superficiale della mafia. Venire qui, incontrare le persone, vedere quello che accade è un’altra cosa».
Mentre parliamo, arriva Francesco, direttore del campo, membro dell’Arci di San Pietro Vernotico. Mi racconta di come “don Tonino” si sia arricchito con la produzione e il commercio del vino adulterato; di come negli anni Novanta per quella villa siano passate centinaia di immigrati albanesi, condotti lì dalla spiaggia attraverso una strada nascosta tra i vigneti. E di come, a conferma della devozione religiosa tipica dei boss mafiosi, avesse fatto costruire una chiesetta, dove un prete di San Pietro Vernotico andava a dire messa.
Ma come si vive in un paese in cui molti ancora considerano la confisca dei beni come un sopruso ai danni di un “benefattore”? «A cinquanta metri da casa mia – risponde Francesco – abitano i nipoti di Tonino Screti, li incontro spesso, ma io vado per la mia strada. Noi dobbiamo agire per ridurre il consenso nei confronti della mafia e allargare quello intorno alla legalità. La strada è lunga, ma credo che questo sia possibile».
Nel frattempo i ragazzi, terminato il lavoro e lavati via fatica e sudore, si confrontano sulla giornata, scherzano, ascoltano musica in attesa della cena. Sono diciotto, sei ragazzi e dodici ragazze, età massima diciotto anni. Tre di loro ne hanno appena tredici, vengono da Bologna accompagnati da Cristina, loro ex insegnante in pensione, che si è assunta questa non facile responsabilità. Sono adolescenti come tanti, con i loro sogni e le loro speranze, ma anche con la convinzione che “sporcarsi le mani” sia un modo per contribuire alla crescita di una cultura della legalità e della responsabilità.
La mattina la sveglia suona alle 4,45. Mezzora dopo siamo a tavola per la colazione. Le facce assonnate, dopo una notte durata un respiro. Il caldo è già asfissiante e le cicale continuano a frinire. Alle sei arriva Vincenzo, uno dei soci della cooperativa che organizza il lavoro nel vigneto. Per combattere la calura si comincia presto: tre-quattro ore a sistemare i tralci e alle 10,30 si rientra. I volontari, guanti alla mano e cappelli in testa, si avviano tra i filari. Giacomo, diciotto anni e un sorriso contagioso, viene da Trento: «Ho voluto “sporcarmi le mani” e dare un aiuto, anche se piccolo. Ma come ha detto don Ciotti, unendo le forze le cose si possono cambiare. Il suo intervento mi ha lasciato senza parole, a me che di solito ne sono sempre pieno. Mi ha fatto sentire un’emozione forte, qualcosa che non è passata dalla testa, ma direttamente dal cuore...». Simone, da Parma, è alla sua seconda esperienza: «Lo scorso anno mi sono sentito davvero utile: stavo facendo qualcosa per aiutare non soltanto la cooperativa, ma anche il mio paese. Così ho deciso di tornare».
Esserci, costruire insieme, rispettare le regole e gli altri: così si coniuga, nei comportamenti quotidiani, la lotta all’illegalità e si alimenta l’antimafia sociale, basata sull’etica della responsabilità, che deve affiancare l’antimafia della repressione, fatta da magistrati e forze dell’ordine. Perché come dice Lara di Bologna «la mafia è una cultura, un modo di pensare purtroppo molto diffuso. Il nostro lavoro qui è minimo, ma ha un valore simbolico importante: è un modo per dire che ci siamo, è la nostra testimonianza contro la mafia. È una sfida che noi lanciamo». «Lara ha ragione – aggiunge Emanuela, che arriva da Scandiano, Reggio Emilia –. E dopo questa esperienza tutti noi torneremo a casa più maturi, perché abbiamo condiviso valori e princìpi fondamentali».
La sera è tempo di festa. Assessori di Regione, Provincia e Comuni limitrofi, dirigenti di Arci e Cgil sciamano per la villa. Si discute di mafia e antimafia, di confisca dei beni, di solidarietà e impegno civile. Cosimo e Giulio, segretario della lega Spi di Torchiarolo, si aggirano attenti a che tutto fili liscio. Cosimo distribuisce copie di LiberEtà. È anche l’occasione per gustare i prodotti di queste terre. E tra un bicchiere di rosato e una frisella coi pomodori, conosco anche Alessandro, il presidente della cooperativa che mi racconta un po’ di storia: «La cooperativa è nata nel gennaio 2008 per l’uso di beni confiscati nei comuni di Mesagne, Torchiarolo e San Pietro Vernotico. Nel 2010 ci è stata assegnata anche la “villa”, ma noi già lavoravamo i terreni intorno, sotto gli occhi del boss che continuava a vivere lì. Abbiamo subìto minacce e intimidazioni, sono stati incendiati terreni, c’è ancora diffidenza nei nostri confronti. Ma andiamo avanti, perché legalità, qualità e sostenibilità sono la nostra forza».
Sono stati tre giorni intensi. Prima di ripartire, David, che fino a quel momento era rimasto un po’ in disparte, mi dice: «Questo campo è stata la più bella esperienza della mia vita». Di certo ne vivrà delle altre, ma questa difficilmente la dimenticherà.
In modo semplice e spontaneo, i ragazzi e le ragazze del “campo di Hiso” mi hanno trasmesso il loro entusiasmo. Mentre ci salutiamo, e mi ricordano di spedire loro le foto e il giornale in cui si parlerà del campo, vedo in quegli sguardi l’orgoglio di essere stati protagonisti di questo progetto. E mi torna in mente una frase del giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia, scritta su un manifesto affisso nella villa: «Alla fine non ci chiederanno se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili». E loro, con la scelta di stare dalla parte giusta, lo sono stati.
Fabrizio Bonugli

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