Villa Santa Barbara, o semplicemente la “villa” come la
chiamano da queste parti, è una costruzione nascosta tra uliveti e vigneti che
si estendono a perdita d’occhio nel comune di Torchiarolo, in provincia di
Brindisi. Circondata da un muro alto oltre due metri e dotata di potenti fari
che la illuminano a giorno, ha tutta l’aria di essere un bunker eretto a difesa
di qualcuno o di qualcosa piuttosto che una masseria di campagna.
Del resto,
quando scopri chi ne era proprietario capisci che la villa è stata costruita
proprio per questo. Fino a maggio del 2010, infatti, è stata la casa di Tonino
Screti, considerato dagli inquirenti il cassiere della Sacra corona unita, la
quarta mafia nata proprio in queste zone della Puglia.
Oggi la villa e trentacinque ettari di terreni confiscati
sono gestiti dalla cooperativa “Terre di Puglia - Libera terra” che vi coltiva
grano, pomodori, carciofi e uva. D’estate, poi, le stanze della villa si
animano della presenza di decine di giovani che arrivano da tutta Italia per partecipare
ai campi antimafia, organizzati dall’Arci e quest’anno anche da Cgil e Spi, e
lavorare quelle terre rimaste per anni ostaggio della criminalità mafiosa che
ha imposto soprusi e violenza, calpestato le regole, lacerato il tessuto
sociale.
Ma nel campo di Torchiarolo, così come in tutti quelli
organizzati in giro per l’Italia, non ci trovi solo i ragazzi. A dare man forte
arrivano, infatti, anche i volontari dello Spi Cgil, con il compito di
preparare i pasti per tutti i partecipanti, ma anche quello di trasmettere ai
giovani compagni di avventura quel patrimonio di memoria e di esperienza del
quale sono custodi. Convinti, a dispetto di chi alimenta ad arte un conflitto
tra giovani e anziani, che la costruzione e la crescita di una società civile
non possa prescindere da un solido patto tra generazioni, che in questo caso si
esprime attraverso la condivisione di un progetto per la riaffermazione della
legalità e della democrazia.
Quando con Cosimo, segretario organizzativo dello Spi di
Brindisi, arrivo al “campo di Hiso” – così chiamato in onore di Hiso Telaray,
giovane immigrato albanese ucciso nel 1999 perché aveva osato ribellarsi ai
“caporali” – è un rovente pomeriggio di luglio. Il cielo è una massa
lattiginosa che annulla le distanze. L’ininterrotto frinire delle cicale e un
sole implacabile rendono stanchi anche i pensieri.
Margherita, Valerio e Chiara mi accolgono con grande affetto
e mi fanno sentire tra vecchi amici. Sono giovani attivisti dell’Arci, arrivati
dall’Emilia Romagna per coordinare l’attività del campo. Mi “lasciano libero”
di girare per il campo, di prendere confidenza con l’ambiente. Per le
presentazioni “ufficiali” rimandiamo tutto alla cena. I ragazzi, impegnati
nella pulizia della villa, mi guardano incuriositi. Molti indossano la
maglietta con la scritta “Legalità – Terra senza confini”.
La mattina don Luigi Ciotti ha fatto visita al campo. È
ripartito da alcune ore, ma l’emozione è ancora viva, condivisa da giovani e
anziani, e mi viene trasmessa dai volontari dello Spi dell’Emilia Romagna, con
i quali mi soffermo in cucina mentre affettano pomodori, zucchine e meloni per
la cena. Spendono parole di grande ammirazione per il fondatore di Libera:
«Ascoltando don Ciotti – confessa Gilberto, dello Spi di Cesena – mi è venuta la
pelle d’oca». «Ci ha raccontato la sua storia straordinaria – aggiunge Danila,
anche lei dello Spi di Cesena – è una persona di grande carisma, un eroe del
nostro tempo».
Ma qual è il motivo che li ha spinti a partecipare al campo?
La risposta è univoca: la curiosità di conoscere questa realtà e provare a
comprenderla, oltre alla voglia di fare qualcosa di concreto contro la mafia.
«Sapevo dell’esistenza dei terreni confiscati – dice ancora Gilberto –, ma non
sapevo come fossero utilizzati. Venire qui ha significato toccare con mano il
problema. Credo che con l’impegno le cose possono cambiare». «Questa esperienza
– aggiunge Mirella, dello Spi di Cesena – è importante soprattutto per noi che
veniamo dal Nord. Perché se è vero come dice don Ciotti, la mafia ha radici al
Sud ma i suoi frutti sono al Nord, e noi abbiamo una conoscenza superficiale
della mafia. Venire qui, incontrare le persone, vedere quello che accade è
un’altra cosa».
Mentre parliamo, arriva Francesco, direttore del campo,
membro dell’Arci di San Pietro Vernotico. Mi racconta di come “don Tonino” si
sia arricchito con la produzione e il commercio del vino adulterato; di come
negli anni Novanta per quella villa siano passate centinaia di immigrati
albanesi, condotti lì dalla spiaggia attraverso una strada nascosta tra i
vigneti. E di come, a conferma della devozione religiosa tipica dei boss
mafiosi, avesse fatto costruire una chiesetta, dove un prete di San Pietro
Vernotico andava a dire messa.
Ma come si vive in un paese in cui molti ancora considerano
la confisca dei beni come un sopruso ai danni di un “benefattore”? «A cinquanta
metri da casa mia – risponde Francesco – abitano i nipoti di Tonino Screti, li
incontro spesso, ma io vado per la mia strada. Noi dobbiamo agire per ridurre
il consenso nei confronti della mafia e allargare quello intorno alla legalità.
La strada è lunga, ma credo che questo sia possibile».
Nel frattempo i ragazzi, terminato il lavoro e lavati via
fatica e sudore, si confrontano sulla giornata, scherzano, ascoltano musica in
attesa della cena. Sono diciotto, sei ragazzi e dodici ragazze, età massima
diciotto anni. Tre di loro ne hanno appena tredici, vengono da Bologna
accompagnati da Cristina, loro ex insegnante in pensione, che si è assunta
questa non facile responsabilità. Sono adolescenti come tanti, con i loro sogni
e le loro speranze, ma anche con la convinzione che “sporcarsi le mani” sia un
modo per contribuire alla crescita di una cultura della legalità e della
responsabilità.
La mattina la sveglia suona alle 4,45. Mezzora dopo siamo a
tavola per la colazione. Le facce assonnate, dopo una notte durata un respiro.
Il caldo è già asfissiante e le cicale continuano a frinire. Alle sei arriva
Vincenzo, uno dei soci della cooperativa che organizza il lavoro nel vigneto.
Per combattere la calura si comincia presto: tre-quattro ore a sistemare i
tralci e alle 10,30 si rientra. I volontari, guanti alla mano e cappelli in
testa, si avviano tra i filari. Giacomo, diciotto anni e un sorriso contagioso,
viene da Trento: «Ho voluto “sporcarmi le mani” e dare un aiuto, anche se
piccolo. Ma come ha detto don Ciotti, unendo le forze le cose si possono
cambiare. Il suo intervento mi ha lasciato senza parole, a me che di solito ne
sono sempre pieno. Mi ha fatto sentire un’emozione forte, qualcosa che non è
passata dalla testa, ma direttamente dal cuore...». Simone, da Parma, è alla
sua seconda esperienza: «Lo scorso anno mi sono sentito davvero utile: stavo
facendo qualcosa per aiutare non soltanto la cooperativa, ma anche il mio paese.
Così ho deciso di tornare».
Esserci, costruire insieme, rispettare le regole e gli
altri: così si coniuga, nei comportamenti quotidiani, la lotta all’illegalità e
si alimenta l’antimafia sociale, basata sull’etica della responsabilità, che
deve affiancare l’antimafia della repressione, fatta da magistrati e forze
dell’ordine. Perché come dice Lara di Bologna «la mafia è una cultura, un modo
di pensare purtroppo molto diffuso. Il nostro lavoro qui è minimo, ma ha un
valore simbolico importante: è un modo per dire che ci siamo, è la nostra
testimonianza contro la mafia. È una sfida che noi lanciamo». «Lara ha ragione
– aggiunge Emanuela, che arriva da Scandiano, Reggio Emilia –. E dopo questa
esperienza tutti noi torneremo a casa più maturi, perché abbiamo condiviso
valori e princìpi fondamentali».
La sera è tempo di festa. Assessori di Regione, Provincia e
Comuni limitrofi, dirigenti di Arci e Cgil sciamano per la villa. Si discute di
mafia e antimafia, di confisca dei beni, di solidarietà e impegno civile.
Cosimo e Giulio, segretario della lega Spi di Torchiarolo, si aggirano attenti
a che tutto fili liscio. Cosimo distribuisce copie di LiberEtà. È anche
l’occasione per gustare i prodotti di queste terre. E tra un bicchiere di
rosato e una frisella coi pomodori, conosco anche Alessandro, il presidente
della cooperativa che mi racconta un po’ di storia: «La cooperativa è nata nel
gennaio 2008 per l’uso di beni confiscati nei comuni di Mesagne, Torchiarolo e San Pietro
Vernotico. Nel 2010 ci è stata assegnata anche la “villa”, ma
noi già lavoravamo i terreni intorno, sotto gli occhi del boss che continuava a
vivere lì. Abbiamo subìto minacce e intimidazioni, sono stati incendiati
terreni, c’è ancora diffidenza nei nostri confronti. Ma andiamo avanti, perché
legalità, qualità e sostenibilità sono la nostra forza».
Sono stati tre giorni intensi. Prima di ripartire, David,
che fino a quel momento era rimasto un po’ in disparte, mi dice: «Questo campo
è stata la più bella esperienza della mia vita». Di certo ne vivrà delle altre,
ma questa difficilmente la dimenticherà.
In modo semplice e spontaneo, i ragazzi e le ragazze del
“campo di Hiso” mi hanno trasmesso il loro entusiasmo. Mentre ci salutiamo, e
mi ricordano di spedire loro le foto e il giornale in cui si parlerà del campo,
vedo in quegli sguardi l’orgoglio di essere stati protagonisti di questo
progetto. E mi torna in mente una frase del giudice Rosario Livatino, ucciso
dalla mafia, scritta su un manifesto affisso nella villa: «Alla fine non ci
chiederanno se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili». E loro, con
la scelta di stare dalla parte giusta, lo sono stati.
Fabrizio Bonugli
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